Cos’è la malattia mentale e quali sono le sue origini?
La dottoressa Erlicher esplicita fin da subito l’intenzione di instaurare un dibattito piuttosto che tenere una lezione frontale, invitando tutti a partecipare, chi in presenza, chi da remoto.
Inizia parlando della sua formazione come neuropsichiatra infantile, con competenze neurologiche e psichiatriche, ampliate durante la sua carriera da una formazione psicoterapica psicoanalitica . Ha lavorato a lungo in un reparto di neuropsichiatria infantile e successivamente in comunità terapeutiche per adolescenti.
“Capita che gli psichiatri non conoscano in modo approfondito il cervello e i neurologi non conoscano la psiche, in questo la neuropsichiatria infantile, tenendo ancora insieme e collegati questi due ambiti, presenta dei vantaggi“.
Ma quale è il loro rapporto? cos’è il cervello e cos’è la psiche? Se non può esserci psiche senza cervello, in che modo essi funzionano?
L’assimilare i disturbi psichiatrici alle altre malattie non tiene conto proprio del fatto che il cervello dipende dalla psiche oltre che viceversa, e induce a credere che la malattia mentale debba essere curata esclusivamente, al pari di qualsiasi altra malattia organica, solamente tramite farmaci. Sorge spontanea nel pubblico, infatti, la domanda: perché per questo tipo di malattie della mente i farmaci sono ancora così poco efficaci? L’incongruenza sta a monte: la malattia mentale non è una malattia esclusivamente biologica del cervello; è dunque riduttivo pensare che un farmaco, di per sé, possa far scomparire i sintomi. La dottoressa ci spiega che i farmaci fanno sì la differenza, riducendo l’angoscia o migliorando l’umore, ma è proprio in questo terreno fertile che deve inserirsi il lavoro psicologico, affinché anche alla psiche sia dedicato lo spazio di cura che merita. Oltretutto, la necessità e il valore della cura della psiche, oggi, sono oscurati dalla mentalità contemporanea che valorizza eccessivamente la performance, la fretta, la sicurezza, ponendo in cattiva luce l’incertezza, il dubbio, l’attesa e la fatica che inevitabilmente accompagnano un percorso terapeutico: ci vuole tempo, pazienza e cura affinché le nostre ferite più profonde si rimarginino.
Queste prime considerazioni ci portano a riflettere anche su cosa intendiamo specificamente per malattia mentale e, conseguentemente, per guarigione.
“Disturbi della maturazione” li definisce la dottoressa più precisamente, proprio perché i sintomi che si manifestano derivano anche da un qualcosa che non ha funzionato nella maturazione psico-biologica della persona nel passato. Gli aspetti genetici sui quali sono stati compiuti molti lavori non spiegano da soli le gravi malattie mentali: le loro cause possono essere molteplici e non possono essere definite con certezza. È probabile che concorrano aspetti sia biologici che ambientali in senso lato, come i recenti studi di epigenetica (l’impatto dei fattori ambientali sull’espressione fenotipica dei geni, pur senza modificare la sequenza del DNA) propongono.
Proviamo tutti insieme, a questo punto, a riflette su alcuni potenziali fattori ambientali di rischio, con l’accortezza di non considerarli in modo deterministico. Un’esperienza traumatica nel corso dell’infanzia, la trasmissione del trauma intergenerazionale, crescere in una famiglia disfunzionale, incomprensioni e pressioni dal contesto scolastico.
È complicato capire come questo influenzi la maturazione anche perché ciò che è traumatico è soggettivo, e c’è sempre una quota di vulnerabilità individuale: ciò che fa star male me, non è detto che faccia star male te allo stesso modo. Inoltre, la vita di ciascuno è costellata da tante esperienze, da tanti contesti e da tante relazioni e nessuno di per sé può essere l’unico fattore determinante.
Nel ruolo di genitori, i presenti sembrano colpevolizzarsi, ma l’idea che un genitore possa controllare tutte le variabili in gioco è utopistico. Un genitore però, che si impegna nel prendersi cura di sé, dedicandosi degli spazi per elaborare le proprie ferite e riflettere sui propri pattern comportamentali, può diventare un modello positivo per il figlio oltre che rilanciare la relazione familiare. Questo può fare la differenza ed è opportuno riconoscersi che non tutti possiedono gli strumenti e il coraggio per farlo.
E la guarigione è possibile? Anche in questo caso dipende da cosa intendiamo.
Spesso il funzionamento di una persona è strettamente legato al contesto in cui si trova, dunque un ambiente può favorire il sintomo, un altro può sanarlo. Ad ogni modo sono documentati casi conclamati di guarigione, anche per i pazienti più gravi.
Infine, racchiudendo un po’ tutti i temi emersi, si dibatte sul contesto sociale attuale. È evidente la tendenza della nostra epoca a collocare i comportamenti fuori dalla norma in una categoria diagnostica, come se etichettarli li rendesse innocui e meno inquietanti.
Anche la scuola, sembra faticare a dare spazio alle differenze, e alle variabili dallo standard di “normalità”; c’è la tendenza ad etichettare sotto forma di disturbo, non lasciando spazio di espressione, a tutte quelle unicità non patologiche che caratterizzano la variabilità umana.
E’ indubbio che una maggior conoscenza porti alla definizione di piani educativi più mirati, tuttavia è anche necessario che la scuola accompagni gli studenti nella costruzione della propria autostima e della propria unica identità. Per far sì che un ragazzo non si senta identificato esclusivamente dalla sua performance né dalla sua eventuale diagnosi, la scuola dovrebbe essere un contesto realmente accogliente e non discriminante, che possa davvero essere funzionale sia all’apprendimento che all’autentica maturazione dei ragazzi.