Cento cinquantaquattro. Sono i chilometri che separano Milngavie da Fort Williams. Le
persone mi chiedono perché lo faccio. Perché faccio tutti quei passi. Perché decido di fare
tutta quella fatica. La verità è che non ho una risposta. È forse per cercarla che cammino.
Ogni cammino porta con sé una domanda più che una risposta: c’è chi si chiede se
riuscirà ad andare avanti da solo, sulle proprie gambe; chi, invece, se sarà mai in grado di
fermarsi; chi si chiede se è pronta a diventare madre; chi se sarà in grado di superare il
dolore che porta dentro. Lo zaino, infatti, è pesante e ad ogni chilometro lo è un po’ di più.
Pieno di domande, di pensieri, di dolori.
Mi ha sempre affascinato il fenomeno del “secondo respiro”: è un fenomeno fisiologico che
si verifica durante l’attività fisica prolungata. Scientificamente, è legato all’adattamento del
corpo allo stress dell’esercizio. Si manifesta come una diminuzione della fatica percepita e
una maggiore facilità respiratoria dopo una fase iniziale di affanno e disagio. È un
meccanismo di omeostasi in cui il corpo ritrova un equilibrio nel dolore. Un po’ un
ossimoro. Un po’ come la vita. Ognuno di noi porta il proprio zaino in spalla e, come
durante un cammino, non importa quanto questo pesi ma, piuttosto, se saremo in grado di
ritrovare l’equilibrio con esso. Camminare è muovere ciò che prima era fermo. È curiosità
verso il sé, l’altro, il mondo. È provare a superare i propri limiti. È andare avanti, mettendo
un piede avanti all’altro. È cercare un nuovo equilibrio su gambe doloranti.
Mi stupisco sempre di come sulla strada si diventi così tanto generosi da condividere i
propri pesi con persone incontrate per la prima volta e che probabilmente non si
rivedranno più. Dolori, spesso macigni. Condividerli ci rende forse più leggeri e si fa posto
a nuovi ricordi e ad emozioni meno pesanti. Ci si riconosce. Ci si trova elettivamente affini.
Il ritmo del proprio passo, nonostante il peso dello zaino, si sincronizza con quello
dell’altro. Siamo ‘soli in presenza di qualcuno’.
A metà della West Highland Way c’è una valle. Gli scozzesi la chiamano Glencoe Valley
(“valle del pianto”). Nel 1692 fu sede del massacro del clan dei McDonald. Si erano rifiutati
di giurare fedeltà al re Guglielmo III. La terra è umida, come le lacrime. Ma è bella, come
un dipinto. Sa di malinconia e di tenacia. Un ossimoro. Un bellissimo contrasto. Come due
respiri. Uno di dolore e l’altro di libertà.
Alla fine della Glencoe valley c’è la Glen Etive. Per me, la valle più bella della West
Highland Way. Respiro. Sento meno dolore nelle gambe. Lo zaino mi sembra non pesare
più così tanto. Respiro di nuovo, per la seconda volta. Mi riempio i polmoni di gratitudine,
di sguardi commossi, di emozioni intense. Una bellezza quieta nel dolore. Non ho una
risposta, ma un nuovo equilibrio.
Cento cinquantaquattro. E’ una distanza incommensurabile. Tanto grande da non poter
essere misurata in chilometri ma solo nelle emozioni che si provano attraversandola,
passo dopo passo, incontro dopo incontro.